Ed eccola finalmente, la copertina di Hybrid, la novità Giunti Y in uscita in tutte le librerie italiane il 6 marzo. Non vedo l'ora di stringere fra le mie manine questo libro e spero che il mio entusiasmo vi contagi, ma ovvio devo dirvi qualcosa in più!
Titolo: Hybrid
Autrice: Kat Zhang
Pagine: 416
Prezzo: 14,50 euro
Dimesioni: 12,5x18 cm
Copertina: Cartonato con sovraccoperta
Uscita: 6 Marzo 2013
Isbn: 9788809770744
Disponibile in ebook
TRAMA:
NON DOVREI PIU’ ESISTERE MA SONO ANCORA QUI.
In un mondo alternativo, ogni persona nasce con due diverse personalità,
due anime. Con il passare del tempo, in modo naturale, l’anima
dominante prende il sopravvento e quella recessiva viene dimenticata,
scompare come un amico immaginario che ci ha tenuto compagnia solo
nell’infanzia. Il sopravvivere delle due anime dopo la pubertà è
illegale e visto dalla società come un’aberrazione da correggere.
Ma in Addie, nonostante i suoi sedici anni, è ancora presente Eva, la
sua seconda anima. Rannicchiata nella mente di Addie, Eva interagisce
con l’altra parte di sé: come due vere sorelle si amano, si proteggono,
ma possono diventare anche gelose l’una dell’altra.
Nonostante tutti i tentativi per difendere e nascondere l’esistenza della debole Eva, il segreto di Addie viene scoperto.
Adesso cosa ne pensate?
Quando Giunti Y ha anticipato l'argomento trattato da questo distopico ho saltato sulla sedia e spero che non mi deluda perchè l'idea è davvero originale e mi piace molto.
Ma voglio dirvi qualcosa in più sull'autrice:
Kat Zhang, poco più che ventenne, è nata in Texas, studia medicina ed è sino-americana.
Questo è il suo esordio e si svilupperà in una trilogia.
Ma le sorprese non finiscono qui, il 7 marzo Giunti Y farà partire la nuova iniziativa per ampliare il team degli Y Ambassador, prestissimo i dettagli sul Blog Y.
E allora in bocca al lupo a tutti, vi assicuro che è una bellissima esperienza!!
Ma per me le sorprese non finiscono qui.
Insieme alla cover ho ricevuto le prime pagine di Hybrid, le leggerò al più presto e vi dirò che cosa ne penso.
Nel frattempo vi lascio con il prologo:
Prologo
<<Io e Addie siamo nate nello stesso corpo. Le dita spettrali
delle nostre anime erano strettamente intrecciate prima
ancora che cominciassimo a respirare. I primi anni in-
sieme sono stati anche i più felici. Poi sono cominciate
le preoccupazioni, le labbra strette dei nostri genitori, le
fronti corrugate delle insegnanti della scuola materna, le
domande che tutti pronunciavano a mezza voce quando
pensavano che non stessimo ascoltando.
«Perché non cominciano a stabilizzarsi?»
Stabilizzarsi.
Cercavamo di formare quella parola nella nostra boc-
ca di bimbe di cinque anni, provandola sulla lingua.
Sta-bi-li-za-ssi.
Sapevamo cosa voleva dire. Più o meno. Significava
che una di noi due doveva assumere il controllo. Signifi-
cava che l’altra doveva sparire. Adesso so che è molto più
di questo, ma a cinque anni io e Addie eravamo ancora
ingenue, inconsapevoli.
Quella patina d’innocenza cominciò a sgretolarsi al
primo anno delle elementari. Fu la nostra consulente
scolastica dai capelli grigi a scalfirla.
«Sapete, care, stabilizzarsi non è una cosa di cui aver
paura» ci disse mentre osservavamo le sue labbra sottili
dipinte di rosso. «Forse può sembrarvi così adesso, ma
capita a tutti. L’anima recessiva, che sia l’una o l’altra, si
addormenta e basta.»
Tralasciò di dirci chi pensava sarebbe sopravvissuta tra
noi due. Non ce n’era bisogno. In prima elementare tutti
erano certi che fosse Addie l’anima dominante. Riusciva
a farci andare a sinistra quando io volevo andare a destra,
si rifiutava di aprire la bocca quando io volevo mangiare,
urlava «No», anche se io avrei voluto disperatamente dire
«Sì». Riusciva a farlo senza sforzo e più il tempo passava
più diventavo debole, mentre il suo controllo aumentava.
Ma a volte riuscivo ancora a impormi... e lo facevo.
Quando la mamma ci chiedeva com’era andata la gior-
nata, io raccoglievo tutte le forze per raccontare la mia
versione dei fatti. Quando giocavamo a nascondino, io
insistevo perché ci accucciassimo dietro una siepe an-
ziché correre a fare tana-libera-tutti. A otto anni diedi
uno strattone mentre portavamo il caffè a papà. Abbiamo
ancora sulle mani le cicatrici di quelle ustioni.
Più sentivo la mia forza affievolirsi, più mi ostinavo, in
una lotta sempre più violenta, cercando di convincermi
che non sarei scomparsa. Addie mi odiava per questo, ma
io non potevo farne a meno. Ricordavo la libertà di un
tempo... mai completa, naturalmente. Ma potevo chiede-
re alla mamma un bicchiere d’acqua, un bacio dopo una
caduta, un abbraccio.
Finiscila, Eva, urlava Addie ogni volta che litigavamo.
Finiscila e basta. Vattene.
E per molto tempo ho creduto che, un giorno, l’avrei
fatto.
A sei anni ci portarono per la prima volta da uno spe-
cialista. Gli specialisti erano molto più pressanti della con-
sulente scolastica. Gli specialisti ci sottoponevano ai loro
insulsi test, alle loro insulse domande e ci facevano pagare
parcelle tutt’altro che insulse. Quando i nostri fratellini
raggiunsero l’età della stabilizzazione, io e Addie eravamo
già state da due terapeuti e avevamo provato quattro di-
versi tipi di cure, con lo scopo di favorire ciò che la natura
avrebbe già dovuto fare: sbarazzarsi dell’anima recessiva.
Sbarazzarsi di me.
I nostri genitori sembrarono incredibilmente sollevati
quando le mie irruzioni diminuirono, quando i dottori
cominciarono a presentar loro prognosi positive. Cerca-
rono di tenercelo nascosto, ma noi li sentimmo pronun-
ciare i loro «finalmente», accompagnati da grandi sospiri,
fuori dalla porta della nostra stanza, ore dopo averci dato
il bacio della buonanotte. Per anni eravamo state la spina
nel fianco del quartiere, lo sporco, piccolo segreto, non
così segreto: le bambine che non volevano stabilizzarsi.
Nessuno sapeva che, nel cuore della notte, Addie mi
lasciava uscire e camminare per la stanza, toccare i vetri
freddi della finestra e piangere le mie lacrime con le ul-
time forze che mi rimanevano.
Mi dispiace, sussurrava lei. E sapevo che era sincera,
nonostante tutto quello che poteva avermi detto in pas-
sato. Ma questo non cambiava nulla.
Ero terrorizzata. Avevo undici anni e anche se mi ero
sentita ripetere da sempre che era del tutto naturale che
l’anima recessiva svanisse, io non volevo andarmene.
Volevo vedere altre ventimila albe, vivere altre tremila
giornate d’estate in piscina, sotto il calore del sole. Vole-
vo sapere cosa si provava a dare il primo bacio. Le altre
anime recessive erano state fortunate a svanire verso i
quattro o cinque anni. Sapevano meno.
Forse per questo le cose sono andate diversamente.
Volevo disperatamente vivere. Mi sono rifiutata di cedere.
Non sono mai svanita del tutto.
Persi ogni controllo sui movimenti, è vero, ma rimasi:
intrappolata nella testa di Addie, paralizzata. Potevo solo
guardare e ascoltare.
Non lo sapeva nessuno a parte me e Addie, e lei non
aveva nessuna intenzione di dirlo in giro. Ma sapevamo
anche cosa toccava ai ragazzi che non si stabilizzavano,
che diventavano ibridi. Eravamo perseguitate dalle im-
magini degli istituti in cui venivano rinchiusi per non
fare più ritorno.
Alla fine i dottori ci dichiararono guarite. La consu-
lente scolastica si congedò da noi con un lieve sorriso
compiaciuto. I nostri genitori erano in estasi. Imballarono
tutto e ci portarono a quattro ore di macchina, in un altro
stato, in un nuovo quartiere, dove nessuno sapesse nulla
di noi e dove avremmo potuto essere qualcosa di più che
la “famiglia con la bambina strana”.
Ricordo di aver visto la nuova casa per la prima volta
dal finestrino della macchina, oltre la testa del nostro
fratellino: una piccola villetta color bianco sporco con
il tetto dalle scandole scure. Lyle pianse quando la vide
così vecchia e malmessa, con il giardino soffocato dal-
le erbacce. Nel trambusto che ne seguì, mentre i nostri
genitori cercavano di calmarlo, occupandosi allo stesso
tempo di scaricare il camion dei traslochi e trascinare
dentro i bagagli, io e Addie restammo sole un momento,
un minuto intero fuori, al freddo invernale, a respirare
l’aria gelida.
Dopo tanti anni le cose si erano finalmente aggiusta-
te. I nostri genitori potevano di nuovo guardare la gente
negli occhi e Lyle poteva di nuovo uscire con Addie in
pubblico. Ci inserirono in una classe di seconda media
in cui nessuno sapeva degli anni che avevamo passato a
dividerci lo stesso banco, strette e scomode, desiderando
solo che nessuno si accorgesse di nulla.
Potevano essere una famiglia normale, con preoccu-
pazioni normali. Potevano essere felici.
Loro.
Ma non si rendevano conto che non c’erano solo loro.
C’era ancora un noi.
Io ero sempre lì.
«Addie ed Eva, Eva e Addie» cantilenava la mamma
quando eravamo piccole, prendendoci in braccio e facen-
doci volteggiare per aria. «Le mie bambine.»
Adesso, quando aiutavamo a preparare la cena, papà
chiedeva soltanto: «Addie, cosa ti piacerebbe mangiare
stasera?».
Nessuno usava più il mio nome. Addie ed Eva, Eva e
Addie non esistevano più. C’era solo Addie, Addie, Addie.
Una bambina, non due.>>
Che ne pensate?